Articolo pubblicato su Il Giornale d’Italia
L’importanza, per l’Italia tutta, di ricordare quel che avvenne nelle Terre del confine orientale
Nell’epoca in cui ci è dato di vivere, le attività umane sembrano avere importanza soltanto in proporzione diretta con il risultato che ottengono in termini di sviluppo economico, di capacità industriale o di prospettiva commerciale. Capita così che tutte quelle iniziative legate alla crescita culturale dell’uomo – che per definizione prescindono dall’immediato effetto monetario – restino relegate nel ghetto del velleitarismo a fondo perduto, considerate quasi un pigro passatempo, retaggio di un’epoca nella quale il pensiero era necessario rifugio dall’insuperabile indigenza materiale.Per questa ragione, da diversi anni il nostro popolo langue nell’indifferenza culturale nei confronti della filosofia, della letteratura, delle belle arti, cioè di tutte quelle attività che non concorrono allo sviluppo del PIL ma che, per citare Robert Kennedy, rappresentano tutto ciò per cui vale la pena vivere.
Fra queste vi è senza dubbio la memoria storica: relegata tra le materie complementari nelle scuole e nelle università, la riduzione della consapevolezza storica a sapere residuale è all’origine di un analfabetismo di ritorno, preoccupante per dimensioni ed effetti. Presi dalla frenesia della spirale produzione-consumo, infatti, gli italiani (e in generale gli europei) stanno perdendo quella consapevolezza del proprio passato che è invece fondamentale, perché se da un lato contribuisce alla creazione di un’identità nazionale responsabile fatta dalla comune esperienza, dall’altro scongiura la riproposizione di errori già sperimentati nel passato e di cui si perde memoria diretta.
È questa la risposta migliore a quanti domandano che senso abbia parlare ancora oggi delle foibe e dell’esodo degli italiani dalla Venezia Giulia, delle persecuzioni etnico-culturali messe in atto dal regime di Tito ai danni degli italiani che da sempre abitavano la sponda orientale del mare Adriatico: ha senso perché soltanto attraverso la conoscenza di ciò che è stato, soltanto attraverso l’incessante memoria degli errori e delle nefandezze – come degli eroismi e delle virtù – è possibile costruire un futuro di pace e di sviluppo umano integrale, riducendo il rischio dell’eterna ripetizione nietzschiana di ciò che, purtroppo, è stato.
Il Comitato 10 Febbraio si occupa di questo: di portare, insieme con le associazioni degli esuli, il fardello della memoria, consapevoli che la storia del confine orientale è parte fondamentale della storia d’Italia, e quindi riguarda ciascuno di noi. È questo che fa della nostra opera una missione: l’ambizione di strappare il passato alla memorialistica reducistica, trasformandolo nel tassello di un unico coerente percorso di crescita.
La sfida più grande è farlo senza che questo diventi uno stanco esercizio retorico: conoscere e riconoscere il passato significa porre le basi per un nuovo dialogo con quanti oggi abitano quelle terre un tempo contese – cioè sloveni, croati e italiani rimasti – rendendo viva quell’unità europea che, abbattuti i confini fisici fra Trieste e Fiume, rischia di rimanere sulla carta se non saprà trasformarsi in dialogo vivo e costruttivo, che parta dalla volontà di riallacciare un legame che ha da sempre visto l’Adriatico come un ponte fra l’Oriente e l’Occidente.
Michele Pigliucci