La guerra partigiana di Tito si intersecò con le contrapposizioni ideologiche, nazionaliste e religiose
Pubblicato su Il Giornale d’Italia
Molto spesso i giustificazionisti delle stragi delle foibe compiute dai partigiani nazionalcomunisti “titini” si appellano ai crimini di guerra compiuti dalle truppe italiane in Jugoslavia fra l’aprile 1941 ed il settembre 1943, glissando sul carattere marcatamente anti-italiano assunto dal nazionalismo sloveno e croato, ben presente nel movimento partigiano di Tito e conseguenza della politica del divide et impera esercitata dalle autorità austro-ungariche nella fase conclusiva dell’Impero asburgico.
Il periodo bellico che costoro chiamano in causa è estremamente complicato e presenta un’intricata rete di alleanze, contrapposizioni e conflittualità latenti di cui la storiografia italiana si è occupata diffusamente in tempi recenti, dopo le pionieristiche opere di Teodoro Sala e di Enzo Collotti, ed i titoli delle opere più significative e scientificamente accurate denotano la particolarità della vicenda trattata. Ha fatto da apripista «L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943)» (Carocci, Roma 2007) di Eric Gobetti, il quale ha poi ampliato lo spettro della sua analisi, che in questo volume riguardava precipuamente le truppe italiane di presidio in Bosnia-Erzegovina, con «Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943)» (Laterza, Roma-Bari 2013), riguardante tanto il difficile rapporto di alleanza con gli ultranazionalisti ustaša croati (incattiviti con l’Italia per la mancata annessione dell’intera Dalmazia allo Stato Indipendente Croato) quanto l’ambigua sinergia sviluppata in funzione anticomunista con le bande paramilitari dei cetnici serbi. Un quadro d’insieme dei tanti teatri operativi che videro le forze del Regio esercito impegnate nella penisola balcanica (Albania, Grecia, Montenegro, Kosovo, Slovenia, Bosnia-Erzegovina) emerge dal poderoso volume «Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945» (Mulino, Bologna 2011) di Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti, mentre è fresca di stampa la nuova edizione aggiornata e ampliata de «I Cetnici nella Seconda guerra mondiale. Dalla resistenza alla collaborazione con l’esercito italiano» (LEG, Gorizia 2017) di Stefano Fabei.
Da queste letture emerge una situazione oltremodo ingarbugliata, sicché nel Regno di Jugoslavia sconfitto e spartito a tavolino dalle potenze dell’Asse nell’aprile 1941 Italia, Germania, Ungheria e Bulgaria procedettero ad annessioni ed all’istituzione di governatorati militari, Ante Pavelić poté realizzare l’indipendenza croata ed all’Albania sotto controllo italiano dal 1939 fu assegnato il Kosovo. I cetnici, nazionalisti e monarchici, di “Draža” Mihailović furono i primi a scatenare la guerriglia, ma ridimensionarono le loro iniziative onde evitare le rappresaglie nei confronti dei civili; i partigiani comunisti di Tito, invece, si attivarono solamente dopo l’attacco della Germania all’Unione Sovietica ed inizialmente collaborarono con i cetnici, che però si distaccarono una volta appurati i progetti titoisti di creare a guerra finita una Jugoslavia non più monarchica bensì comunista; l’esercito e le milizie di Zagabria scatenarono violenze, deportazioni e stermini nei confronti di serbi, ebrei e zingari per giungere alla pulizia etnica della Grande Croazia, causando non solo la reazione armata dei cetnici, ma anche l’interposizione delle truppe italiane inorridite di fronte alle violenze gratuite frutto di ultranazionalismo e cattolicesimo esasperato; le comunità islamiche sparpagliate tra Bosnia, Erzegovina e Montenegro dovettero subire le incursioni di bande cetniche ferocemente antimusulmane e videro nell’ideologia comunista di Tito una protezione dalle prevaricazioni dei serbo-ortodossi.
Alla guerra di resistenza nei confronti degli occupanti stranieri e dei loro collaborazionisti indigeni, insomma, si sovrappose una guerra civile in cui si incrociavano vecchie contrapposizioni religiose e nuovi contrasti ideologici inerenti i futuri assetti statuali. Di fronte alle attività partigiane i comandi italiani, come tutte le potenze in conflitto, applicarono le leggi di guerra allora vigenti, esortando i sottoposti a ricorrere alla rappresaglia nei termini più duri (coerentemente con la famigerata circolare 3c emessa dal generale Roatta), anche se il generale Robotti ebbe a lamentarsi che «si ammazza troppo poco». Deportazioni nei campi di internamento, fucilazioni di ostaggi e incendi di villaggi conniventi con la guerriglia rappresentarono forme di rappresaglia che esasperarono i rapporti tra civili e italiani (cosa cui Tito mirava insistendo con imboscate ed attentati), ma d’altro canto l’opera di protezione fornita dal Regio esercito a serbi ed ebrei perseguitati dai croati dette origine a “un debito di gratitudine”, come titola il libro di Menachem Shelah (Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 2009), la cui famiglia fu salvata dal furore ustaša proprio dai reparti italiani.
Lorenzo Salimbeni