Le vicende dei giuliani e dalmati dell’esercito austro-ungarico prigionieri dell’esercito zarista
Pubblicato su Il Giornale d’Italia
Nel centenario della Rivoluzione di Ottobre, c’è una pagina di storia che riguarda anche alcune centinaia di nostri connazionali, coinvolti nelle vicende dei “dieci giorni che fecero tremare il mondo”. Al momento dell’entrata in guerra dell’Austria-Ungheria il 28 luglio 1914, infatti, non tutti i nostri connazionali in età da chiamata alle armi ancora sudditi degli Asburgo scelsero di esfiltrare in Italia per evitare l’arruolamento ovvero per entrare come volontari nel Regio Esercito auspicando una Quarta guerra d’indipendenza. In particolare triestini, goriziani ed istriani andarono a costituire le fila del 97° imperial-regio Reggimento di fanteria Freiherr von Waldstätten, partito immediatamente per il fronte russo: impegnato sul fronte della Galizia, subì terrificanti perdite e moltissimi furono anche i prigionieri.
Ancor prima del 24 maggio 1915, l’Italia cominciò ad interessarsi della sorte di questi soldati di lingua e cultura italiana, ma solamente nell’estate 1916 partì finalmente una Missione militare che doveva vagliare il lealismo ovvero l’italianità di questi ospiti del campo di prigionia di Kirsanov. Nella spedizione, comandata dall’ufficiale dei Carabinieri Cosma Manera, vi erano anche sei elementi che provenivano proprio dalle terre irredente (gli istriani Vigini e Sbisà, il goriziano Venier ed i triestini Reiss-Romoli, Iellersitz-Illesi e Nordio) e contribuirono a vagliare il primo scaglione di 4.000 “italiani d’Austria” che, attraverso il porto di Arcangelo, a ridosso del Circolo polare artico, sarebbero partiti in autunno alla volta dell’Italia. Vennero quindi dislocati a Torino, ma si erano da poco consumate le tragiche vicende che avevano portato alla cattura in battaglia, al processo ed all’impiccagione degli irredentisti Cesare Battisti, Fabio Filzi e Nazario Sauro, per cui non si ritenne opportuno inviare al fronte questi nuovi soldati.
Ben diversa fu la sorte della seconda aliquota di trentini (1900 circa) e giuliani (600) che poterono manifestare la propria appartenenza all’Italia alla nuova Missione militare ancora agli ordini di Manera, di cui facevano parte anche il trentino Bazzani ed il fiumano Baccich (futuro Legionario dannunziano), che iniziò ad operare nel bel mezzo della Rivoluzione bolscevica. La selezione di questi uomini, infatti, rispondeva al desiderio delle potenze dell’Intesa di sostenere le Armate bianche controrivoluzionarie, inviando missioni militari di supporto (il Giappone in primis) oppure svolgendo opera di persuasione nei confronti dei prigionieri austro-ungarici (si costituì anche una Legione cecoslovacca). Essendo bloccata dalle forze rivoluzionarie la via per i porti del mar Glaciale Artico, costoro dovettero affrontare il gelido inverno siberiano del 1917/’18 per arrivare infine alla concessione italiana di Tientsin, in Cina, ove furono inquadrati nei Battaglioni neri (dal colore delle mostrine). Fino al 1920, la Legione Redenta di Siberia trovò impiego, assieme a contingenti di Alpini giunti dall’Italia, nella protezione delle linee ferroviarie dell’Estremo oriente, su cui si davano battaglia i treni corazzati sovietici e quelli dell’Ammiraglio Kolčak: si distinse in particolare un gruppo di combattenti zaratini. Il successo finale dell’Armata Rossa anche in queste lande all’estrema frontiera dell’impero portò alla smobilitazione della coalizione anticomunista e finalmente gli ex sudditi asburgici poterono essere inviati in Italia, taluni sulla rotta navale che attraversava l’Oceano Indiano, Suez ed il Mediterraneo, altri attraversando gli Stati Uniti e l’Atlantico: quest’ultima opzione era la preferita dalle autorità sabaude, poiché il contatto durante il tragitto con le comunità italo-americane avrebbe consolidato un’italianità sulla cui effettiva sincerità permanevano perplessità.
Indubbiamente ci furono anche scelte di comodo, finalizzate a ridurre i tempi della prigionia ovvero ad anticipare il rientro a casa, ma ci furono anche casi opposti, di prigionieri tedeschi e austro-ungarici che scelsero di affiancare i rivoluzionari ed aderirono convintamente alla causa socialista: il plotone d’esecuzione dei Romanov a Ekaterinburg era costituito da ex soldati imperial-regi. Nella Brigata Internazionale che l’Armata Rossa costituì, con la persuasione e con la costrizione, fra i detenuti del campo di prigionia siberiana di Omsk, figurava anche il sottufficiale croato Josip Broz, destinato ad assumere nei successivi anni di militanza comunista, una volta rimpatriato nel neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, il nome di battaglia di Tito.
Lorenzo Salimbeni