Articolo pubblicato su Il Giornale d’Italia
Il filosofo abruzzese fu tra i pochi padri costituenti nel 1947 a schierarsi contro la ratifica del Trattato di Pace che mutilava i confini d’Italia.
L’amor di Patria, il culto del Risorgimento, l’opposizione al diktat del Trattato di Pace del 1947: questi e altri aspetti di Benedetto Croce sono stati al centro della relazione del professor Pier Franco Quaglieni, storico e direttore generale del Centro “Pannunzio”, nonché membro del Comitato scientifico del Comitato 10 Febbraio, intervenuto domenica 27 novembre alla conferenza organizzata a Roma dal Circolo di cultura e di educazione politica Rex sul tema “Benedetto Croce figlio del Risorgimento a 150 anni dalla nascita del filosofo”.
Introdotto dal presidente del circolo Domenico Giglio e davanti a un pubblico in cui figuravano il Senatore Domenico Fisichella, il Direttore dell’Istituto per la Storia del Risorgimento di Bolzano Achille Ragazzoni ed il Direttore dell’Archivio – Museo Storico di Fiume Marino Micich, Quaglieni ha ripercorso la biografia di Croce partendo dagli attestati di gratitudine intellettuale che gli pervennero dalla rivista “Il Mondo” di Mario Pannunzio, la quale commemorò la scomparsa del filosofo definendolo “Italiano di verità” ed in uno degli ultimi editoriali rivendicò di essere stata “crociana” nel corso del proprio percorso. Nell’approcio alla storia italiana, Croce aveva riconosciuto il ruolo fondamentale del regno del Piemonte nel processo unitario, facendo da apripista ai lavori di Rosario Romeo sui connotati liberali dello Stato sabaudo, mentre denunciava i danni apportati alla cultura italiana da positivismo ed irrazionalismo, preferendo collegarsi nel solco di Francesco De Sanctis al classicismo.
«Benché fosse un intellettuale disorganico nel senso gramsciano del termine – spiega Quaglieni – Croce fece sentire la sua voce nei momenti decisivi della storia italiana. Dopo essersi scagliato contro la massoneria e le sue interferenze nel mondo accademico, durante la Grande Guerra fu neutralista, ma poi, pur non riuscendo a cogliere la continuità dell’intervento in guerra italiano con le vicende risorgimentali, dichiarò di provare un dolore fisico ogni volta che apprendeva degli immani sacrifici che il conflitto richiedeva»
Senatore del Regno e chiamato a ricoprire l’incarico di Ministro della Pubblica Istruzione da Giolitti nel 1920, Croce occupò brevemente questo dicastero, laddove la sua amicizia con Giovanni Gentile fece sì che nella riforma del 1923 affiorassero contributi e spunti di matrice crociana. Inizialmente sostenitore del governo Mussolini, visto come un antidoto all’ingovernabilità e ad una guerra civile con possibili esiti bolscevichi, Croce si sarebbe poi discostato dal regime in nome della sua religione della libertà. Il profondo patriottismo lo avrebbe tuttavia fatto aderire alla campagna di donazioni lanciata in risposta alle “inique sanzioni”, laddove in seguito alla promulgazione delle leggi razziali avrebbe pubblicamente espresso la propria solidarietà alla comunità ebraica. Riconosciuto da Piero Gobetti come un “formatore di coscienze”, Croce avrebbe ricevuto attestazioni di stima anche da Leo Valiani, intellettuale socialista fiumano approdato al Partito d’Azione, nel quale però il filosofo abruzzese non riusciva a identificarsi.
Sconvolto dalla tragica fine di Gentile, a guerra finita Croce avrebbe preso posizione a favore della monarchia, anteponendo la continuità istituzionale nelle forme di uno Stato laico ed erede del Risorgimento alle denunce di collusione con il fascismo rivolte a Vittorio Emanuele III. Il filosofo abruzzese prese parte ai lavori dell’Assemblea Costituente e rimase famoso il discorso che tenne contro la ratifica del Trattato di Pace imposto dalla potenze vincitrici il 10 febbraio 1947 a Parigi. L’amore per la verità ed il timore di una rivoluzione comunista fecero sì che Croce all’epoca fu tra i pochi a denunciare apertis verbis le stragi delle Foibe e ad attirare l’attenzione sulle drammatiche vicende degli esuli istriani, fiumani e dalmati in fuga dal regime di terrore che il dittatore jugoslavo Tito andava consolidando anche nelle terre strappate all’Italia.
Lorenzo Salimbeni